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L’EURO, LA RIUNIFICAZIONE TEDESCA E LE “PROSPETTIVE EGEMONICHE” DELLA GERMANIA

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Il fantasma della riunificazione tedesca, susseguente al crollo del muro di Berlino e un riemergere della “sindrome di Versailles” alla fine del 1989 hanno condizionato il rafforzamento della prospettiva di unificazione europea e il processo di unione valutaria per mezzo della moneta comune dell’Euro (prima di questo c’era stato l’ingresso della Lira nella fascia ristretta di fluttuazione stabilita dallo SME). All’indomani della caduta del muro le cancellerie europee (F. Mitterand e G. Andreotti su tutti) apparivano in preda alla psicosi di una possibile nuova “Grande Germania”. Arrimer l’Allemagne (“imbrigliare la Germania”) fu la risposta al pericolo di nuove prospettive egemoniche tedesche. Vincolandola nel progetto di unificazione monetaria per inibirne le “spinte” espansioniste. La riunificazione fu accettata, così, da Francia e Inghilterra e ridimensionata nella sua portata storica facendola confluire nel contesto dell’allargamento comunitario.

La Germania, un paese che ha raggiunto di recente l’unificazione (al pari dell’Italia), quando sulle ceneri dell’impero di Napoleone III sorse quello guglielmino, uscita pesantemente penalizzata dal punto di vista economico e territoriale da due conflitti mondiali, appariva destinata dalla storia a recuperare un ruolo di protagonista nella compagine europea.

Il patto della riunificazione raggiunto nel 1990 consisté quindi nell’avallo al suo compimento in cambio dell’” europeizzazione” del marco. (1) La fine del mondo bipolare aveva determinato il venir meno di quelle regole non scritte che avevano condizionato la politica europea durante la guerra fredda, ponendo la necessità di nuovi equilibri, e quindi di un’unione europea sempre sotto l’egida statunitense.
L’Italia fu particolarmente investita dal cambio di passo della storia sancito dalla caduta del muro e a nulla valsero i tentativi andreottiani di salvare la vecchia classe politica, allora arroccata nella coalizione del “Pentapartito”. (2) L’adesione all’euro da parte delle nostre classi dirigenti, evento che si tentò di differire inutilmente(3), ha provocato conseguenze politiche rilevanti e dai risvolti imprevedibili, soprattutto nel nostro paese, contribuendo ad alimentare una crisi della rappresentanza e della legittimità della classe politica di fronte all’opinione pubblica (già pesantemente minata a cavallo tra “prima” e “seconda repubblica” dai noti scandali di corruzione).(4)
La situazione attuale però ci porta a fare delle riflessioni su un bilancio storico del progetto europeo e della creazione della grande area valutaria dell’euro. La crisi di funzionamento di questo modello è giunta a tal punto da contemplare scenari di dissolvimento (“piani b” di uscita), che comportano delle analisi sulle conseguenze di un’eventuale uscita unilaterale o concertata trai paesi europei, sulle quali tuttavia non mi soffermerò in questo articolo.(5)

L’eventuale fine dell’eurozona, che dovrebbe essere affidata alla competenza di una seria classe politica (la situazione in Italia in questo senso non è buona), potrà essere determinata in futuro dall’esito di una valutazione costi-benefici da parte della stessa Germania. Quest’ultima infatti, che era scettica sul progetto di unificazione monetaria, si è ritrovata a goderne tutti i benefici e di fatto ad averne la leadership indiscussa. Rivelando la totale ristrettezza di visioni di chi ha pensato di poter contenere la Germania costringendo altri stati ad adottarne, de facto, una sorta di parità di cambio.

L’accelerazione dell’unificazione fu segnata da quel “documento di contabili”,(6) come lo definì F. Cossiga, ovvero il Trattato di Maastricht (1992), che fissava i “criteri di convergenza” dei paesi europei. Questi prevedevano un’inflazione massima all’1,5, il divieto di svalutazione, un disavanzo pubblico non superiore al 3% (numero perfetto dal significato vagamente spirituale)(7) in rapporto al Pil – si noti l’assenza di limitazioni all’indebitamento privato- e un debito pubblico non superiore al 60% del Pil.

L’Europa, così, nata nella vaghezza di Maastricht, con le proprie irreggimentazioni contabili, procederebbe “per catastrofi” secondo L. Caracciolo(8). Essa pensò di anteporre l’unificazione monetaria a quella fiscale e politica (secondo il motto di Napoleone “l’intendance suivra”), mettendo le basi per uno squilibrio nella struttura europea, in cui esiste una “periferia” europea costretta a una titolarità formale al prezzo di una subalternità politica sostanziale,(9) all’interno di una struttura sovranazionale sottomessa agli ukase della zona “core” (sostanzialmente mitteleuropea), ovvero dell’”euronucleo” (Germania e suoi satelliti(10) riedizione di un disegno franco-carolingio o di un’area commerciale allargata sul modello del Zollverein prussiano, una specie di unione doganale rispolverata su scala europea). Questa core Europe ha costretto, soprattutto negli ultimi anni, con l’aggravamento della crisi, i paesi deboli ed esposti a crisi di rifinanziamento (principalmente mediterranei), ad adottare politiche fiscali restrittive, a colpi di tagli di spesa pubblica, aumenti delle imposte e piani di rientro dal debito socialmente insostenibili.(11)

I condizionamenti della tecnostruttura europea e dei creditori esteri hanno obbligato i paesi della porzione meridionale del continente (ai quali v’è da aggiungere l’anomalo caso dell’Irlanda) negli ultimi tre anni a una iterazione sine die dello “stato di eccezione” (della sospensione, in sostanza, del processo democratico di indizione delle elezioni politiche dalle quali emerge una maggioranza e un governo del paese), collocando al potere ministri e talvolta interi esecutivi tecnocratici, fedeli esecutori delle prescrizioni di Bruxelles, di Francoforte e di Berlino. Gli interessi nazionali sono così sottoposti al “vincolo esterno”, non già di un’Europa politica e legittimata democraticamente, ma di altri stati sovrani e organizzazioni sovranazionali (Ue, FMI, MES). (12) Senza contare che a partire dal 2010 negli USA, dopo i primi interventi espansivi voluti da B. Obama, la strada imboccata in Europa al fine di risolvere la crisi è stata innestata su politiche di austerità fortemente depressive sul piano economico (già adoperate nel 1937 da F. D. Roosvelt(13), nel biennio 1930-32 da Heincrich Bruning(14) e in America latina come conseguenza della crisi debitoria negli anni ‘80).

L’imposizione di queste politiche deflattive (austerity) induce diminuzione dei prezzi, disincentivando gli investimenti, ristagno del mercato per la debolezza della domanda, regressione della produzione industriale e dei redditi. Queste hanno ragion d’essere in una situazione in cui c’è l’esigenza di raffreddare un mercato in preda a un boom incontrollato o a bolle speculative, frenando la domanda e restringendo il credito, non in una fase recessiva. In secondo e ultimo luogo tutte le politiche di consolidamento del valore della moneta (nel caso dell’euro si tratta di un’operazione costitutiva e istituzionalizzata) si ripercuotono sui salari, con una riduzione del costo del lavoro per stimolare la competitività.

Un altro aspetto da sottolineare del progetto europeo è quello ideologico. L’ideologia e la propaganda intorno all’Euro, che inibiscono un approccio razionale al problema, hanno accecato la ragione di molti, presentando lo scenario dell’”unificazione politica” e della moneta unica come quello “del migliore dei mondi possibili”; hanno posto di fronte a una prospettiva irreversibile (a dispetto del rifiuto popolare dei referendum del 2005 in Francia e Olanda), hanno bombardato di messaggi intorno alla prospettiva edenica di una unione delle economie europee, tanto da occultare il disegno originario che soggiaceva al progetto europeo, presentandocelo in una prospettiva deterministica e teleologica, come se senza di esso gli stati nazionali sarebbero andati incontro alla collisione: gli “staterelli” del vecchio continente sarebbero stati tanti vasi di coccio destinati alla frantumazione trai grandi otri metallici della Cina, degli USA, delle nuove potenze del BRICS. Un modo, forse, per giustificare i cambi fissi (tanto cari all’oligopolio finanziario mondiale, perché impediscono di ricorrere all’arma della svalutazione(15), riducendo il debito o stimolando la competitività e la crescita) e agevolare il piano “para-coloniale”, sponsorizzato dal mainstream liberoscambista.

Il progetto dell’euro, ispirato a un’ideologia economica liberista, determina due fattori elementari spiegati all’interno delle letterature economiche. In primo luogo esso si fonda su un’idea di disinflazione permanente (mantenimento dell’inflazione su percentuali stabili o rigide), (16)che fa risentire ancora di più i suoi effetti in occasione dell’esplosione della crisi (con le “cure” di austerità somministrate ai paesi a rischio default, “tratti in salvo” con operazioni di bailout tutt’altro che caritatevoli), che prosciuga le risorse del sistema economico, frena l’economia e i consumi, e innesca strette creditizie, per la sola ragione, in passato, di calmierare l’inflazione.

L’idea che ha guidato l’adesione all’euro è stata infatti ampiamente appoggiata e sostenuta dalle classi dirigenti, dai gruppi di interesse, dalle consorterie finanziarie e dalle classi dirigenti: si sarebbe ottenuto, attraverso l’ancoraggio al cambio fisso e al “vincolo esterno” la riduzione del potere contrattuale dei sindacati, la flessibilità e la segmentazione del mercato del lavoro (dovendo i costi della svalutazione spostarsi inevitabilmente sul mercato interno e sui costi dei beni, quindi del lavoro).(17) Una rigidità del tasso di cambio che obbligasse quindi a una svalutazione interna (dei salari), piuttosto che un cambio fluttuante, in luogo di un’inflazione che colpisse tutti, compresi evidentemente i più ricchi.(18)

L’ideologia mercantilista e la logica del protezionismo hanno animato invece l’adesione al progetto europeo da parte della Germania. La deflazione dei salari attuata attraverso la riforma del lavoro del 2003 ideata da Peter Hartz, sotto il governo Schröder, che ha ridotto la domanda interna, compensata però da una crescita economica legata all’export e da un aumento della produttività, si inserisce in tale logica. Essa fu tesa anche a reprimere i consumi interni e a riequilibrare la bilancia commerciale sulle esportazioni (fondamentale sostitutivo della politica di potenza militare), che si incarica di difendere nel proprio statuto la stessa Bundesbank. L’idea che si possa svalutare a danno di altri è improntata a un mercantilismo spicciolo(19) che contrasta fortemente con lo “spirito comunitario” e che è stato recentemente criticato dal Tesoro americano e dal FMI.(20) La svalutazione salariale ha reso più competitiva l’economia tedesca, che oggi si fonda su un modello sbilanciato sulle esportazioni all’interno della zona euro (anche se ormai non solo più dirette al mercato europeo, che riguarda comunque una grossa fetta del suo mercato) su salari minimi ridotti e su una bassa inflazione che rende più appetibili gli investimenti.

Non pochi esperti hanno evidenziato che come risoluzione a tale asimmetria, sarebbe necessario un forte inflazionamento da parte della Germania per riequilibrare la diversità dei differenziali di inflazione in termini reali tra nord e sud Europa (segnato dal carovita). Ma ciò è ben lungi dall’essere attuato. Il mancato assolvimento al ruolo di generatore di domanda europea, cui la Germania era ben poco disposta, ha reso insostenibile per gli importatori, per lo più periferici, la permanenza nell’eurozona. Del resto, l’avversione tedesca all’inflazione, tipica del modello industriale renano tendenzialmente refrattario al lassismo fiscale (più che la mancata elaborazione del dramma di Weimar), rendeva incompatibile la Germania con la funzione di paese creatore internazionale di valuta, ruolo assolto in altre epoche dall’Inghilterra, con scarsa efficacia, tra prima e seconda guerra mondiale e dagli Stati Uniti fino alla rottura del sistema di Bretton Woods.(21)

A livello geopolitico l’unificazione europea ha posto la questione della proiezione su uno scenario continentale dell’Italia, anziché sul Mediterraneo (che è concepito più come “frontiera” che come spazio naturale), più confacente alla sua realtà storica e politica. Ciò costituisce un altro vizio alla base dell’adesione al progetto di Unione europea. Lo scenario continentale franco-carolingio caro alla Germania, ha provocato un sacrificio in termini di aspirazioni geostrategiche più utili all’Italia.

L’Europa, testa di ponte geopolitica degli Stati Uniti,(22) attualmente sottoposta al sovradimensionato ruolo della tecnostruttura BCE-Commissione europea e della Germania (ciò di cui iniziano a soffrire i gollisti d’oltralpe), paese leader, vede crescere le divergenze al suo interno, lungo le “linee di faglia” sopracitate tra nord e sud del continente o tra “centro” e “periferia”. Il processo di unificazione, sospinto nell’epoca post-guerra fredda in una temperie il cui portato ideologico e politico conduceva a preferire le aggregazioni territoriali su comuni basi culturali ed etniche (secondo la lezione di S. Huntington) -nel quadro della risistemazione geopolitica globale a seguito della caduta del vecchio ordinamento bipolare – oggi che si va compiendo tra mille criticità, sembra riproporre una revisione di quel criterio di ordinamento del mondo, nonché una rivisitazione delle dinamiche interne alla stessa Europa.

 

NOTE

(1) Lucio Caracciolo, Euro No. Non morire per Maastricht, Laterza, Bari 1997 p. 23
(2) L. Caracciolo, L’Italia alla ricerca di se stessa, in G.Sabbatucci, V.Vidotto (a c. di), Storia d’Italia, vol. VI, L’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 1999.
(3) L’Italia tentò di procrastinare, nonostante l’imposizione dell’”eurotassa”, l’adesione all’UEM, cosa che, secondo quanto ha rivelato l’ex ministro I. Visco, non venne accettata da francesi e tedeschi, i quali erano coscienti che l’Euro senza la partecipazione dell’Italia non sarebbe stato praticabile, timorosi di una lira svalutata in un area a cambio fisso, vd. “Alla Germania nell’euro servivamo proprio perché deboli”, Il fatto quotidiano, 13 maggio 2012
(4) http://temi.repubblica.it/limes/e-ora-di-scegliere-tra-euro-ed-europa/46534?printpage=undefined
(5) Sulla questione dell’opportunità dell’uscita dall’euro, cui l’autore si mostra favorevole, mi sento di rimandare a un utile articolo di J. Sapir http://www.sinistrainrete.info/europa/3694-jacques-sapir-uscire-dalleuro.html
(6) Cit. in Caracciolo, op. cit. p. 29.
(7) http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2014-01-29/parla-inventore-formula-3percento-deficitpil-parametro-deciso-meno-un-ora-102114.shtml?uuid=ABJHQ0s
(8) L’espressione è usata nello stesso pamphlet “Euro no. Non morire per Maastricht” (p. 17) pubblicato contemporaneamente ad un altro nella stessa collana, ma di fede contraria, intitolato “Euro si. Morire per Maastricht”, opera dell’ex Presidente del Consiglio Enrico Letta, pubblicati entrambi per Laterza nel 1997.
(9) Caracciolo, op. cit, p. 45.
(10) Trai paesi che le gravitano attorno, inseriti nella sua “sfera d’influenza”, dai quali riceve e nei quali indirizza importanti flussi migratori e commerciali: Repubblica Ceca, Slovacchia, Austria, Liechtenstein, Polonia, Slovenia, Croazia, Svizzera, Repubbliche Baltiche, Olanda e Lussemburgo.
(11) Chi volesse obiettare che l’adesione all’Europa è stata sempre avallata dai governi nazionali, dovrebbe soffermarsi sul fatto che la sottoscrizione dei trattati internazionali è sottoposta, a norma della Carta Costituzionale della Repubblica Italiana, all’approvazione del Parlamento, e non di consultazioni referendarie (artt. 75 e 80 Cost.), il che suonerebbe diverso in termini di legittimazione popolare.
(12) A margine, va detto che in assenza di una struttura politica centrale (espressione della volontà popolare), nonché di un coordinamento (la famosa “convergenza” fissata nei trattati europei) e di reali contropartite democratiche alla cessione di sovranità fiscale, la risoluzione degli shock attuali non potrà che avere sbocco nella sottomissione a un patto fiscale e nella subalternità a organizzazioni sovranazionali o entità finanziarie (quale è ad es. il Meccanismo europeo di stabilità), che non hanno alcunché di democratico e di condiviso con i rispettivi popoli europei (che hanno ragione d’essere in relazione alla propria appartenenza ai rispettivi stati nazione, dal momento che non è mai esistito e mai esisterà un unico popolo europeo).
(13) P. Krugman, “Lo spettro del 1937”, Il sole24ore, 23 ottobre 2012
(14) Uguali politiche economiche restrittive furono adottate dal II governo McDonald (1929-1931) in Gran Bretagna.
(15) La svalutazione monetaria si accompagna a un aumento dei prezzi dei beni esteri e sfavorisce le importazioni; determina un incremento delle esportazioni, perché favorisce in virtù di prezzi inferiori l’incremento della domanda estera di beni nazionali; l’Italia ha ricorso alla svalutazione, contrariamente a quanto si sostiene (l’ideologia dei “mercati” ha demonizzato tale strumento perché sarebbe foriera di inflazione, anche se non esiste alcuna correlazione trai due fenomeni), in poche occasioni storiche in maniera marcata (nel 1976 e nel 1981) e sempre ricorrendovi per scopi difensivi e mai ingaggiando guerre monetarie con altri paesi, in particolare in coincidenza con forti incremento dei prezzi determinati dall’aumento del costo del petrolio o in occasione di crisi di rifinanziamento (svalutazione del 1993), quando lo stato, spese le riserve di valuta, non ha altra scelta che abbattere il valore della divisa.
(16) Una disciplina antinflazionistica che come scrisse P. Krugman “everyone knew Germany had always wanted and would always want in future” ( http://web.mit.edu/krugman/www/euronote.html ).
(17) Alberto Bagnai, Il tramonto dell’euro, Imprimatur, Milano 2013, passim
(18) Un processo già iniziato, peraltro, dal 1981 con il “divorzio” della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro ( http://www.ilsole24ore.com/fc?cmd=art&artId=891110&chId=30 ). La separazione consistette nella cessazione di acquisti di bot da parte della Banca d’Italia e nell’indipendenza della banca centrale dall’esecutivo, esito del trionfo delle teorie monetariste (che colmarono il vuoto lasciato dall’ideologia post-keynesiana, ormai tramontata), in quel tempo alla ribalta grazie all’influenza allora esercitata dalla scuola di Chicago e dal premio Nobel Milton Friedman. Il principio dell’indipendenza della banca centrale diventerà uno dei pilastri dell’ideologia europeista, venendo fissato nel trattato di Maastricht attraverso l’esplicito divieto di “monetizzazione” dei debiti pubblici.
(19) M. De Cecco, L’etica tedesca e lo spirito dell’euro, La Repubblica, 26 marzo 2013
(20) http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-10-31/gli-stati-uniti-contro-germania-esporta-deflazione-tutto-mondo-103913.shtml?uuid=ABoZQYa http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-11-03/dopo-affondo-usa-anche-fmi-pressing-berlino-riducete-surplus-bilancia-commerciale-150404.shtml?uuid=ABfov9a
(21) M. De Cecco, F. Maronta, Berlino, Roma e i dolori del giovane euro, in «Limes» 4/ 2013, http://keynesblog.com/2013/05/20/berlino-roma-e-i-dolori-del-giovane-euro/
(22) Zbigniew Brzezinski, A Geostrategy for Eurasia, “Foreign Affairs”, Sept.-Oct. 1997


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